a cura di Simona Busni
Nasce a Belgrado il 30 novembre del 1946, nella Jugoslavia post bellica del maresciallo Tito, figlia di due partigiani eroi di guerra. Dopo un’adolescenza problematica, segnata dal ferreo regime di disciplina imposto dalla madre, con cui vive un rapporto estremamente conflittuale, Marina inizia a frequentare l’Accademia di Belle Arti dedicandosi alla pittura. Qui abbraccia il fermento sessantottino, unendosi al Gruppo 70, nato all’interno del centro culturale studentesco SKC con il proposito di sperimentare forme di espressione alternative alla pittura. Dopo aver vinto un posto d’insegnante all’Accademia di Novi Sad, Marina comincia a dedicarsi alle sue prime performance incentrate sul tema del superamento del limite e sull’idea che il dolore (fisico e mentale) sia un muro da attraversare al fine di acquisire una rinnovata resistenza, esprimibile sottoforma di energia e, pertanto, condivisibile con chi assiste. Rientrano in questa fase la serie Rhythm – 10, 5, 2, 4 e 0 – (1973-1974), Art Must Be Beautiful, Artist Must Be Beautiful, Freeing the Voice e la controversa Thomas Lips (1975): opere estreme, all’interno delle quali il corpo dell’artista subisce sollecitazioni traumatiche di ogni sorta – tra cui, tagli, bruciature, percosse, soffocamenti, congelamenti.
L’incontro che le cambia letteralmente la vita è quello con l’artista tedesco Frank Uwe Laysiepen, noto come Ulay, con il quale vive per dodici anni un’intensissima simbiosi fisica e spirituale. L’amore per lui la porta a immergersi in una nuova dimensione esistenziale nomade e a sviluppare una diversa tipologia di performance, basate sulla coppia, sul dialogo delle energie, o meglio sul superamento della dualità in funzione di un’ideale personalità fusionale che annulli le differenze di genere: ricordiamo, tra gli altri, i Relation Works che i due artisti portano in giro per l’Europa – Relations in space, Talking about similarity (1976), Interruption in space, Breathing in/Breathing out, Imponderabilia, Expansion in space (1977), Light/Dark e AAA-AAA (1978) – e performance sull’ipnosi, come Rest Energy (1980).
Segue una complessa esperienza australiana, durante la quale Marina e Ulay attraversano il Gran Deserto Victoria e vivono insieme agli aborigeni. È qui che maturano nuove forme di consapevolezza relative alla resistenza del corpo, alla comunicazione con il mondo invisibile e all’idea di presenza. Tutto materiale che inevitabilmente confluisce in performance come Gold found by the artists (1981) e Nightsea crossing (1982) – quest’ultima replicata per novanta volte fino al 1987 –, durante le quali Marina e Ulay si fissano, seduti l’una di fronte all’altro, silenziosi e immobili, nel corso di estenuanti sessioni di diverse ore al giorno (per più giorni consecutivi). Il rapporto tra i due però comincia a incrinarsi, a causa di alcuni tradimenti e di esperienze artistiche fallimentari. Al di là di uno strascico interminabile di controversie legali che si protrae fino alla morte di Ulay (2020), resta indimenticabile il loro atto d’addio, sancito dalla celebre performance The Lovers (1988): tre mesi di cammino in solitaria sulla Grande Muraglia Cinese – partiti dalle estremità opposte – per incontrarsi a metà strada e separarsi definitivamente.
Rimasta sola, Marina sembra rinascere sia come artista sia come donna. I suoi studi sulle proprietà dei minerali la spingono a realizzare i cosiddetti Oggetti transitori, opere in grado di trasmettere energia a chi ne fa uso, e inizia a insegnare performance art a Parigi. L’ultimo ventennio della sua carriera d’artista la vede concentrarsi soprattutto sulla dimensione autobiografica, riletta attraverso opere teatrali come Biography (1992) e The life and death of Marina Abramović (B. Wilson, 2012). Anche se la consacrazione definitiva arriva nel 1997 con Balkan Baroque – una sconvolgente performance dedicata alla crudeltà della cultura popolare balcanica – con cui vince il Leone d’oro alla Biennale di Venezia. L’apice della sua popolarità arriva però nella città di New York, grazie a The House with the Ocean View (2002) e, soprattutto, a The Artist is Present (2010), allestita in occasione della sua prima grande retrospettiva al MoMA: per tre mesi (otto ore ogni giorno), l’artista, seduta su una sedia (senza la possibilità di bere, mangiare o andare in bagno), incontra i visitatori che prendono parte alla mostra, semplicemente guardandoli negli occhi senza dire nulla.
L’insegnamento resta negli anni una delle attività più significative nella carriera di Marina: organizza seminari e workshop in tutto il mondo per trasmettere il cosiddetto Metodo Abramović (esercizi finalizzati a potenziare resistenza, concentrazione, percezione, autocontrollo e volontà). Per preservare l’eredità del metodo e promuoverlo, nel 2012 fonda il MAI, Marina Abramović Institute, una struttura immateriale che l’artista dedica agli esseri umani – https://mai.art/. Il suo ultimo spettacolo teatrale, 7 Deaths of Maria Callas, è andato in scena per la prima volta al Bayerische Staatsoper il 1 settembre 2020.