a cura di Sandra Lischi
Irit Batsry è nata nel 1957 a Ramat Gan in Israele e nel 1983 si è spostata a New York, dove ha vissuto a lungo e dove ancora risiede per alcuni periodi. Fin dai suoi studi in Israele si è avvicinata alle arti, iniziando con la ceramica e passando a maneggiare con identica cura e approccio manuale le prime attrezzature video disponibili nella scuola. Questo approccio gestuale, questo gusto per la tattilità e per la commistione dei materiali e questo tenace auto-apprendimento (anche nelle riprese e nel montaggio, allora analogici) hanno caratterizzato il suo percorso, iniziato nel 1982, che in particolare nelle videoinstallazioni ha visto spesso la compresenza di materiali “concreti” (carta, riso) e di immagini elettroniche.
Un’altra caratteristica del lavoro di Irit Batsry è il nomadismo. Si è spostata fra continenti, lingue e città così come fra le arti, intessendo in un percorso frastagliato ma coerente residenze di creazione, dal Brasile all’Italia alla Francia (dove le è stato dedicato all’inizio degli anni Novanta un volume che raccoglie vari saggi critici), festival, esposizioni, musei, gallerie d’arte, fondazioni e istituzioni culturali di vario tipo. Ha vinto premi in tutto il mondo (fra cui il prestigioso Bucksbaum Award, nel 2002), alcune reti TV ne hanno trasmesso il lavoro e le sue opere sono presenti in vari musei e collezioni, dal MoMA al Reina Sofia. I suoi sconfinamenti sono anche fra i generi: contaminazioni fra narrazione, documentario, poesia, con numerosi riferimenti espliciti o impliciti ma anche con testi scritti da lei, e con estrema attenzione alla componente sonora. E oltre a video, a installazioni, alle “tele di film” e alle “cinetectures” realizzate negli ultimi anni con vecchie pellicole, ha esposto anche grandi fotografie tratte dalle sue opere.
La nozione di passaggio, e della traccia che ogni passaggio è destinato a lasciare, permea anche il suo lavoro con le immagini e sulle immagini: non solo Irit Batrsy stabilisce intimità e crea una relazione anche umana con le realtà con cui si trova a progettare e a realizzare le sue opere, ma costruisce un dialogo ravvicinato con ognuna delle sue immagini, che viene sottoposta a metamorfosi incessante, sia nel rapporto con lo spazio (le videoinstallazioni) che con il tempo (la durata, ma anche il tempo che corrode e trasforma, nelle ultime opere): gli “effetti video” diventano così altrettante possibilità di esistenza dell’immagine, che viene trasformata finché non trova la sua giusta misura e maniera di essere.
These are not my images, il titolo del suo video più impegnativo (2000), esprime questo dubbio e questo approccio filosofico al filmare e al manipolare, in una oscillazione costante fra identità, appropriazione, appartenenza, arbitrio. Di chi sono veramente le immagini?
L’identità, appunto, un altro dei grandi nodi dell’opera di Irit Batsry. Identità continuamente interrogata: mutante e aliena, enigmatica, fluida come quella della costante vibrazione delle immagini elettroniche, ontologicamente metamorfiche. Incertezze definitorie, incrinature in continuo spostamento, anche della percezione e della visione (come in A simple case of vision, 1991, video ispirato a un testo di Buckminster Fuller).
Negli ultimi anni Irit Batsry si è spostata a Lisbona, città in cui partecipa a varie iniziative culturali, come il festival di videoarte “FUSO”, la manifestazione “Temps d’Images” e l’attuale network internazionale di “LOOPS EXPANDED”. Qui ha stabilito rapporti anche con artisti con cui divide gli ampi spazi dell’atelier sulle rive del Tejo e di quello nel centro cittadino, e si dedica alle opere ritratte nel video Filmworks realizzato per la piattaforma di FAScinA: i suoi “Cynematic Hybrids”, i suoi “schermi effimeri”, le sue tele e i suoi pannelli fatti di pellicole, riflessioni – rifrazioni, riflessi ma anche tangibilità del film, nuova identità, nuova esistenza. Sempre con l’estrema accuratezza che caratterizza il suo fare. Tela, carta, ruggine, policarbonato, in dialogo con vecchie pellicole, integre o rovinate o deliberatamente esposte ai capricci del clima per far affiorare nuove metamorfosi. E di nuovo il maneggiare, il modellare: riccioli di pellicola come nuovi schermi, fotogrammi come misura spaziale sulla tela.
Questo ci riporta anche alle radici del cinema sperimentale: uno sguardo che Irit, pur con le inevitabili differenze, serba con cura nel proprio bagaglio esistenziale e culturale. Non predilige gli spazi asettici e levigati dell’arte contemporanea, per le sue opere cerca spesso luoghi connotati dalla storia e ricchi di rughe e di crepe, ama le identità imperfette e fuggevoli. Nel suo progettare e fare hanno importanza per Irit le relazioni umane, un approccio anche civile e impegnato in senso esteso, lo spirito collaborativo con realtà minori e minime, il senso di una collettività e il piacere della condivisione intrecciati con un operare anche solitario, rigoroso e concentrato.