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FAScinA 2020_Le sperimentali: tra cinema, videoarte e nuovi media

La sperimentale distruzione della bellezza hollywoodiana in Wanda (1970) di Barbara Loden

di Diletta Pavesi

Abstract:

«Non ho raggiunto tantissimi obiettivi ma ho ugualmente cercato di essere indipendente e di creare a modo mio. Altrimenti, sarei diventata una specie di Wanda, trascinata dalla corrente per tutta la vita». Alla vigilia della sua precoce scomparsa, Barbara Loden parla così della propria carriera. In tale bilancio, Wanda ‒ eroina titolare dell’unico lungometraggio diretto dall’attrice nel ‘70 ‒ è indicata come modello di una femminilità rischiosa. Loden, del resto, non ha mai nascosto quanto la prostrata Wanda Goronski ‒ da lei stessa interpretata ‒ evocasse quella deriva esistenziale a cui si sarebbe condannata se, giovanissima, non avesse lasciato il rurale North Carolina per New York. Al contempo, l’avventura autoriale di una donna nota all’epoca soprattutto per il matrimonio con Kazan è stata prevedibilmente avvertita come emancipazione da un ingombrante consorte. Dal plauso ammirato di Marguerite Duras passando per la commistione tra biografia e saggio in Suite per Barbara Loden di Nathalie Léger, Wanda ha finito per assurgere al rango di sperimentale cult femminista.

Eppure, all’uscita la pellicola suscitò sconcerto proprio fra le aderenti al movimento. La passività della protagonista ‒ una divorziata della working class trascinata dall’amante in una fallimentare rapina ‒ risultava desolante. Invero, Wanda tradisce il suo nucleo più eversivo non in un irreale percorso di autoaffermazione, ma nel radicale rifiuto di quell’imperativo della bellezza che tanto aveva modellato la produzione classica e che ancora continuava a premere sulla New Hollywood. Dichiaratamente ostile a qualsiasi patina glamour, la regista mira a un’intransigente distruzione della beauty politcs hollywoodiana. In un film in cui bigodini, capelli biondi, abiti, manichini e cosmetici acquistano un peso significativamente ambiguo, Wanda diventa l’oscuro contraltare della luminosità di norma associata alla diva. Un rifiuto per la bellezza canonica, questo, che impegna molte riflessioni del femminismo coevo e che avrebbe potuto paradossalmente creare vicinanza con l’audace impresa di Loden. Indagare tale sotterranea analogia può forse arricchire la percezione di Wanda come capolavoro che alla sperimentazione formale aggiunge quella sull’immagine della donna.

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