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FAScinA 2020_Le sperimentali: tra cinema, videoarte e nuovi media Risorse Smarginature

Trame militanti: dalle pellicole politiche all’attivismo dei nuovi media

Tra le pratiche sperimentali e l’agire politico il rapporto è sempre stato privilegiato (Hannabelle e Bassan 1980). L’operare fuori o ai margini dell’industria del cinema, con mezzi poveri ma con quella «libertà» che già Deren ricordava come il più grande vantaggio dell’amateur (Deren [1959] 1965)ha sempre aperto alla possibilità di radicarsi nella militanza, che ha assunto, per le donne, declinazioni e linguaggi diversi nel susseguirsi dei decenni. L’incontro con la seconda ondata del femminismo, nel fervore della contestazione che segue i movimenti antiautoritari del Sessantotto, ha per molte significato una reinvenzione della propria relazione con il mondo, dove la critica alla società capitalistica si scioglie in più vasto ripensamento della propria soggettività. Ce lo ricordano le straordinarie parole di Annabella Miscuglio: «l’approfondimento del femminismo mi ha portata a cercare me stessa, guardare in me stessa mi ha allontanata dall’attivismo politico e mi ha mostrato il dualismo del mondo del pensiero, i suoi meccanismi e i suoi limiti. Non posso più credere alla rivoluzione che non abbia come premessa una profonda rivoluzione interiore» (Miscuglio 1975, p. 142).

È proprio nel solco di una «rivoluzione interiore» che si colloca la pratica artistica e politica di Renata Boero, esplorata qui da Lara Conte. Nel ricordarci il rifiuto dell’artista di inquadrare la sua ricerca all’interno di una cornice di genere, Conte ne evidenzia tuttavia la dimensione politica, dove fotografia e cinema, definiti da Boero un «a priori della pittura», fungono da attivatori di metamorfosi in un ritrovato rapporto con la natura. Il gesto cerca la dimensione della materia e rinnova una relazione con l’elemento naturale che schiude dimensioni magiche e simboliche. Le sue sperimentazioni in super8, a cui si accompagnano opere pittoriche, azioni e documentazioni fotografiche, portano l’artista, come ci ricorda Conte, anche ad abbracciare le lotte operaie al porto di Genova durante gli anni Settanta, in un agire politico che è tuttavia sempre inteso come percorso personale di liberazione dalle ideologie dominanti.

Nel decennio precedente, filmmaker come Cecilia Mangini si immergono in una militanza più legata alla forma dell’inchiesta e della denuncia politica. Angela Saponari ne ripercorre la produzione documentaristica, sia di stampo etnografico sia di più marcato segno politico, evidenziando un legame sempre attivo con le donne della società contadina e operaia, in una indagine sulle soggettività femminili che raggiunge la sua massima evidenza nello storico documentario Essere donne (1964)dove Mangini dilata forme e linguaggi della propaganda politica per ritagliare, nota Saponari, «uno specifico spazio femminile in un contesto culturale e produttivo di evidente egemonia maschile».

Marcatamente militante e di denuncia è anche l’opera di Helena Lumbreras, regista spagnola poco nota nel contesto italiano e qui riportata in luce da Dalila Missero, che si concentra proprio sulla sua produzione italiana, negli anni che seguono il diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia nel 1964. In quella che è definita da Missero come un’operazione di «anacronismo strategico», riscoprire la figura di Lumbreras permette di addentrarci nella pratica militante di una donna che ha scelto il medium audiovisivo come strumento di lotta politica e sociale. Dalla testimonianza delle rivolte nella Spagna franchista del ’68, alla denuncia della connivenza tra dittatura e sistema mediale, fino al racconto della condizione dei lavoratori e delle lavoratrici: Lumbreras sceglie di coniugare le forme della sperimentazione a quelle della contestazione.

Negli anni più recenti la pratica politica delle donne abbraccia la sperimentazione audiovisiva nelle nuove forme della produzione dal basso. Chiara Checcaglini, Ilaria De Pascalis e Lucia Tralli ci conducono attraverso l’attivismo femminista presente su Instagram, mettendo in luce l’esperienza circolare di fruizione e produzione tipica dei social media che sembra evocare quel desiderio di democratizzazione dell’espressione artistica, fuori dai circuiti dell’arte, auspicata dalla pratica e dal pensiero femminista di Cara Lonzi: «quello che mi disturba dell’artista è il ruolo di protagonista che richiede uno spettatore. Anche in “Autoritratto” dicevo che tutti devono essere creativi, non è immaginabile che si accetti una parte di umanità tagliata fuori» (Lonzi 1978, p. 44).

Concentrandosi in particolar modo sulle tematiche del corpo non conforme e dell’agency di soggettività ridotte ai margini dal sistema mediatico dominante, Checcaglini, De Pascalis e Tralli ci rivelano nuove modalità di narrazione pubblica del sé. Corpi di donne fuori dai canoni estetici codificati, corpi transgender, corpi neri sfidano il discorso pubblico esortandolo a una maggiore complessità estetica, etica, emotiva. Questo viaggio attraverso le forme della militanza contemporanea, che incrocia anche il più recente movimento Black Lives Matter, ci apre al lavoro di illustratrici, fumettiste, visual storyteller, dove emergono poliedriche narrazioni autobiografiche e dove il celebre slogan femminista «il personale è politico» risuona con nuove grammatiche visuali.