Nelle pratiche artistiche che prendono avvio dal femminismo degli anni Settanta per proseguire fino alle più attuali riflessioni sulle persistenze patriarcali nella cultura visuale contemporanea, la ricerca di un passato femminile da riscoprire su cui riscrivere storie e immaginari a lungo nascosti o cancellati è tra le più vive e feconde. In essa si intrecciano riscoperte e riletture del mito, racconti della memoria, costruzioni di archivi come spazi aperti di ricerca e di nuove narrazioni.
È questo il senso di Lunàdigas, documentario e «archivio vivo» che Marina Brancato analizza «attraverso il filtro dell’antropologia visiva femminista». Nato con lo scopo di risemantizzare lo stereotipo della donna senza figli, stigmatizzata nella cultura patriarcale, Lunàdigas attinge alla pratica etnografica per raccogliere narrazioni e memorie autobiografiche sul tema della (non) maternità, configurando nuove costruzioni del genere in un’ottica post-patriarcale.
Anche Her Noise è un progetto di costruzione dell’archivio, che tenta di colmare l’assenza delle donne nella storiografia della Sound Art. Roberta Grassi ne rintraccia la storia legandola ai movimenti di contestazione femminista della fine degli anni Novanta e i primi Duemila in Gran Bretagna. L’archivio si è costituito come raccolta di opere su cui costruire mostre, performance, passeggiate sonore e altri eventi di arte partecipata dove il suono, ci ricorda Grassi, è «collante di relazioni sociali».
Ci conduce in un progetto di rivitalizzazione dell’archivio anche lo studio di Alma Mileto, che esplora il progetto di Archivio Cinescatti e Lab 80 film Visioni di città alta ’60 e ’70: popolare e inedita, dove la riscoperta di immagini private del cineamatore Pino Tiani è occasione per una mappatura della città che diventa spazio di riattivazione mnestica attraverso dispositivi installativi e sonorizzazione dal vivo. Mileto sottolinea l’attività di ricerca delle due archiviste e curatrici, Giulia Castelletti e Alessandra Beltrame, in cui prevale la pratica di tessitura delle relazioni: con il cineamatore, con le cittadine e i cittadini, con i luoghi stessi dello spazio urbano, dove le immagini d’archivio ritrovano una collocazione d’appartenenza, una corporeità.
La città è al centro anche dell’indagine di Lucia Di Girolamo su Lina Mangiacapre. I film della performer, filmmaker e attivista napoletana diventano occasione per rivivere e risignificare la città, a partire dal trauma del terremoto dell’Irpinia del 1980 che impone l’osservazione di criticità urbanistiche e architettoniche. Nella ricerca di una nuova origine, la rinascita del territorio napoletano si lega a quella delle donne, che cercano, attraverso la rievocazione del mito, di attivare una metamorfosi del presente e aprire la femminilità, sottolinea Di Girolamo, «verso la totale libertà dell’espressione di sé».
Con la spinta militante di Mangiacapre dialogano le opere di Mònica Saviròn e del collettivo Radha May, esplorate da Giovanna Santaera. Lo scavo d’archivio si lega, in questo caso, al tema delle soggettività marginali (under-represented) e delle «hidden stories», attraverso pratiche artistiche che scavano nelle immagini sepolte o censurate dalla storia e dall’industria culturale per riportarle in luce e inscriverle in una legacy che le riattualizzi e le annodi al filo della trasmissione della memoria.
Farah Polato affronta invece la questione del gender gap nella produzione audiovisiva in Italia, in particolare per i film di più ampia distribuzione – fiction e lungometraggi – disegnando i primi contorni di una mappa legata piuttosto alle produzioni ‘alternative’, di quel cinema indipendente, sperimentale, al confine tra arte e documentario, dove la presenza delle donne è più ampia. Nella sua indagine, che è anche una rete di relazioni tra studiose e filmmaker, le esplorazioni d’archivio e le memorie autobiografiche interrogano il presente per restituire nuove possibilità di agency femminile.