Categorie
FAScinA 2020_Le sperimentali: tra cinema, videoarte e nuovi media Risorse Smarginature

In cerca di sé: corpi, identità, performance

Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, prima in pittura e poi attraverso una espansione tra linguaggi e media, le pratiche autoritrattistiche si sono spinte oltre l’immagine reale, per andare verso la ricerca di una problematizzazione dello statuto del soggetto (Warr 2006; Hall 2014). All’analisi della dimensione interiore e delle condizioni esistenziali delle artiste e degli artisti, nel tempo, si è andata anche a sovrapporre la necessità di mostrarsi come parte e corpi-tramite di una compagine sociale. Tra la fine degli anni Sessanta e Settanta il tema del corpo e l’urgenza di un’indagine identitaria diventano i nuclei di una ricerca femminile che si estende dalle arti figurative al cinema, dai primi usi del video alla performance, spesso in parallelo alle istanze della seconda ondata di femminismo. Il corpo stesso diventa medium per una comunicazione versatile, mezzo di comprensione e affermazione del sé, ma anche manifesto politico, strumento di critica sociale (Vergine 1974; Butler 1990; Bussoni e Perna 2014).

Molte artiste legate alla Body Art intercettano nel video un mezzo libero da tradizioni consolidate e standardizzate, uno strumento fluido che si offre come territorio di ricerca per l’individuazione di una identità propria e di un proprio linguaggio (Elwes 2005). Ed è a partire da questo milieu che Simona Busni propone una riflessione inedita sulla figura di Marina Abramović, adottando una prospettiva originale in cui l’attenzione viene traslata dal corpo-manifesto dell’artista alla sua voce, intesa come parte integrante di una ricerca di sconfinamento identitario, luogo di contatto e collisione col maschile e avamposto energetico del sé.

Analizzando una delle prime opere in video prodotte in Italia, Raffaella Perna mette in luce il lavoro di Bianca Pucciarelli, in arte Tomaso Binga, tra le prime artiste ad avere usato il circuito chiuso in un’azione performativa politica in cui lei stessa diventa soggetto e azione, immagine sdoppiata nei monitor e oggetto di sguardo del pubblico, contestando gli stereotipi di genere veicolati dai media. E ancora in ambito italiano si colloca il saggio di Simona Pezzano dedicato a Marinella Pirelli, figura eccentrica e solitaria nel panorama artistico degli anni Settanta che, attraverso la realizzazione di tre corti sperimentali, ha svolto un discorso autobiografico e una critica al cinema stesso, dapprima inteso e impiegato come mezzo di autoriconoscimento per essere successivamente interpretato come linguaggio automatico, ‘oggettivizzante’ e quindi abbandonato.

Una posizione radicale di rifiuto verso il sistema artistico istituzionale, inteso come ‘suddito di cultura maschile e del suo potere politico-economico’, è quella portata avanti dalle Nemesiache, gruppo femminista fondato da Lina Mangiacapre nel 1970, di cui Giada Cipollone presenta un resoconto storico-critico, focalizzandosi in particolare sull’esperienza teatrale e sul metodo della psicofavola. E ancora sulla stessa linea politica e femminista si colloca il testo di Lorenza Fruci, incentrato sull’analisi delle opere in video e installative di Chiara Fumai, dove l’artista ha ‘incarnato’ e si è fatta alter ego della scrittrice attivista americana Valerie Solanas leggendo il suo SCUM Manifesto, condividendo in modo performativo e concettuale il suo attacco radicale al patriarcato e l’urgenza di una rivoluzione sociale. L’idea di un corpo d’artista che si trasforma in corpo sociale è quella sostenuta da Giulia Raciti nell’analisi dell’opera di Regina José Galindo, artista guatemalteca collocabile nel territorio della Body Art attuale. Attraverso un lavoro fotografico e in video utile ad ‘eternare’ le azioni performative, Galindo espone se stessa in pratiche molto dure e impattanti, sviluppando un discorso politico contro il regime patriarcale del Guatemala, facendo di se stessa un corpo-metafora di espiazione e forma di resistenza del genocidio perpetrato ai danni della popolazione autoctona.

Corpi in rivoluzione, ma anche corpi in evoluzione, così come emergono dal saggio di Deborah Toschi dedicato alla filmmaker Gunvor Nelson e all’analisi del suo film Kirsha Nicolina(1969), nel quale l’artista rompe il tabù della maternità, con un linguaggio sperimentale cinematografico che si fa mezzo e interprete di una revisione introspettiva e intimistica di un atto naturale, riscattando così il corpo della madre come metafora di mediazione, del riconoscimento dell’altro da sé e della differenza. E, infine, come paradigma del corpo evolutivo ritroviamo Miriam Cahn, artista svizzera che opera nell’ambito delle arti figurative, qui esaminata da Martina Panelli, le cui basi teoriche si rispecchiano in opere che mostrano un corpo non normato, transizionale, oltre i concetti di maschile e femminile, di umano e non umano.