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FAScinA 2020_Le sperimentali: tra cinema, videoarte e nuovi media Risorse Smarginature

Genealogie: pioniere della sperimentazione

Ancor prima dell’esplosione del femminismo degli anni Settanta e della scelta del cinema indipendente, amatoriale e d’avanguardia come spazio per l’espressione di nuove soggettività in divenire (Johnston 1973, Mulvey [1979] 1989), dobbiamo proprio ad alcune filmmaker la realizzazione di opere pionieristiche che hanno tracciato i contorni di una sperimentazione formale e di una riflessione teorica sul cinema come forma d’arte. Alcuni casi studio qui analizzati contribuiscono a ripercorrere il filo di questa genealogia.

È Germaine Dulac la prima che, nell’effervescente clima degli anni Venti in Francia, attraversato da continue riflessioni sulla natura dell’allora nuovo medium cinematografico, coniuga un’analisi sull’essenza del cinema a una costante ricerca espressiva. Nell’indagine che le dedicano Anna Masecchia e Chiara Tognolotti, il percorso dell’autrice e teorica francese è illuminato in alcuni degli elementi chiave che hanno fatto la storia stessa dalla sperimentazione audiovisiva: dalle soluzioni formali come la sovrimpressione e la dissolvenza incrociata, alla base di una concezione metamorfica dell’identità, all’attrazione verso forme astratte in cui riconoscere la manifestazione stessa della sua idea di ‘cinema integrale’, fatta di linee, ritmo, movimento. Nell’evocazione della danza, del germinare delle piante e dello sbocciare dei fiori, così come nel tentativo di liberare il corpo della donna, nelle vesti e nelle movenze, dalle costrizioni identitarie della borghesia patriarcale, Dulac ci affida in eredità le principali strade di ricerca in cui si è mosso il cinema sperimentale: la dimensione corporea ed emotiva, la metamorfosi come specchio per soggettività in divenire, l’amore per il close-up e per l’astrazione della forma. Saranno altre donne, oltreoceano e a partire dagli anni Quaranta, a raccogliere questo lascito, aprendo la seconda stagione dell’avanguardia cinematografica dove si ritagliano, di nuovo, lo spazio di vere e proprie madri fondatrici.

A Maya Deren, esplorata qui da Beatrice Seligardi, dobbiamo certamente la nascita, in ambito statunitense, di un movimento attivo legato al cinema amatoriale e d’avanguardia. Non riuscendo a collocare i suoi primi film nel circuito distributivo commerciale di New York, Deren organizzò, da vera attivista della sperimentazione filmica, una prima proiezione in casa per poi affittare a suo spese un noto teatro della città con un successo che Stan Brakhage ricorda così: «il teatro fece il tutto esaurito sera dopo sera, e di fatto andare a vedere Meshes of the Afternoon e ascoltare questa donna folle che parlava di film d’arte divenne “la cosa” da fare in città per almeno sei mesi» (Brakhage 1989, p. 94, traduzione nostra).

Come ci ricorda l’analisi di Seligardi, la filmmaker sceglie la danza e il gesto rituale come unità minima da cui espandere la sua ricerca formale, ancora una volta accompagnata da un’intensa attività di scrittura teorica. È lì che emerge la nota definizione di «vertical film» o «film poem», radicato nell’emozione e in grado di liberare forze espressive e immaginative in un corpo a corpo con la realtà che lo sguardo della filmmaker saprà rivelare nelle sue trame invisibili. Come nota ancora Seligardi, il dialogo con la sua eredità è stato denso ed è tutt’ora vivo per molte autrici.

Marie Menken, figura ancora poco esplorata in Italia e a cui è dedicata l’indagine di Anita Trivelli, riprende invece l’idea di un cinema radicato nella corporeità dove affiora il desiderio di una prossimità con il mondo. La sua «somatic camera», nella definizione di P. A. Sitney (2008), interroga la realtà con forme e linguaggi molteplici: dai cinediari delle piccole manifestazioni naturali alle sinfonie urbane, dalla pittura su pellicola alle forme astratte della luce nelle riprese notturne, il cinema di Menken è un vocabolario della sperimentazione audiovisiva con cui molte e molti esponenti del New American Cinema, da Jonas Mekas a Stan Brakhage, hanno dialogato in modo più o meno diretto.

La dimensione personale di un cinema (quasi) privato, dove emerge con più densità la narrazione del sé, è esplorata da Marga Carnicé Mur a proposito del lavoro di Agnès Varda. In quella terra di (s)confine tra cinema narrativo, documentario e sperimentale, l’opera di Varda si annida in uno spazio dove corpo, memoria e immagine s’intrecciano in un cinema che è, nelle parole di Carnicé Mur, «diritto a uno sguardo tutto per sé».

La radice corporea della pratica filmica e video esplode nell’opera pioneristica di Barbara Hammer, analizzata nei saggi di Francesca Brignoli e Pia Brancadori, che si inscrive nella genealogia della sperimentazione femminile attraverso un dialogo serrato con il cinema di Maya Deren e la fotografia di Claude Cahun, per allargarsi a un’esplorazione di una soggettività già pienamente femminista e queer in una continua ibridazione di arti e media: disegni, collage, fotografia, cinema, video, installazioni. Nella sua opera, che si estende per cinquant’anni a partire dalla fine degli anni Sessanta, Hammer ha contribuito a tessere la trama tra corpo e audiovisivo, in una visione militante del fare cinema dove l’intreccio tra arte e vita è percorso fino alle sue più estreme conseguenze. La sua ultima opera, The art of Dying or (Palliative Art Making in the Age of Anxiety) (2019)una lecture-performance tenuta al Whitney Museum of Art pochi mesi prima della morte, dove ripercorre la sua pratica artistica radicata da tempo in un corpo malato, è piena testimonianza e commovente lascito di una pioniera della sperimentazione.