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FAScinA 2020_Le sperimentali: tra cinema, videoarte e nuovi media Risorse Smarginature

Dispositivi: cinematiche della visione

Nel dibattito filosofico e tecnologico il concetto di dispositivo ha assunto molti significati, come emerge dagli scritti di Foucault (1975), Deleuze (1989) e Agamben (2006), solo per citare i principali protagonisti di una discussione sempre attuale. Nella prospettiva di studi qui presentata, ci pare opportuno adottare il pensiero di Anne-Marie Duguet, studiosa di sociologia dell’arte e dei media che, proprio nel suo saggio intitolato ‘Dispositivi’, scriveva a proposito del video: «L’importante non è produrre un’altra immagine (un’immagine in più) […], ma [di] manifestare il processo della sua produzione, di rivelare le modalità della sua percezione per mezzo di nuove proposizioni. La nozione di dispositivo è qui centrale. Al tempo stesso macchina e macchinazione (nel senso della mechane greca), ogni dispositivo tende a produrre effetti specifici» (Duguet 1994, p. 193).

E invero ciò che emerge dal tessuto composito di questa sezione dedicata alle Cinematiche della visione è la diversità e varietà di relazioni ‘tecnologiche’ che le artiste prese in esame nei saggi hanno sperimentato come modalità di sguardi relazionali, tra loro stesse e i dispositivi, tra i dispositivi e la realtà, interrogandosi e testando i possibili esiti degli intrecci mediali.

Il saggio di Catanese e Mele si offre come un trampolino di lancio per la sezione, focalizzandosi sulla materia prima e concreta del linguaggio cinematografico: la pellicola. Attraverso la disamina di alcune sperimentatrici nell’ambito dei laboratori d’artista, le autrici raccontano il lavoro fortemente manuale e tattile di donne che ancora producono cinema artigianale, un lavoro che si accosta alla tessitura e a pratiche folkloriche femminili nella ricerca di colorazioni naturali, negli effetti di stampa e nelle stratificazioni cromatiche, ma dove si rintracciano anche i procedimenti di riproduzione artigianale di coloritura della pellicola secondo l’eredità dei pionieri e delle pioniere del cinema. Una riflessione, quella delle autrici, che sottolinea l’importanza di una ‘controcultura cinematografica’ rispetto al ‘progresso capitalista’ mainstream dell’alta definizione e che si pone anche come omaggio alla materialità primigenia del cinema.

Luisa Cutzu concentra il suo testo sulle opere video di Giusy Calia, videomaker sarda la cui produzione si rivela come estensione del proprio lavoro fotografico in un’accezione ‘barthesiana’, come se il video venisse impiegato per andare a cogliere e sviluppare nel tempo e nel movimento il senso intrinseco del punctum. Più che di un dialogo tra dispositivi, nel testo di Cutzu emerge la necessità di una compensazione tra linguaggi, da intendere come opportunità di sviluppo e di completamento di un discorso artistico e poetico.

Specchio, identità e autorappresentazione sono i concetti alla base del testo di Laura Leuzzi, in cui viene presentato il lavoro di alcune pioniere europee del video che tra gli anni Settanta ed Ottanta si sono cimentate in pratiche autoritrattistiche, andando oltre la necessità di un’affermazione identitaria femminile. Sovversione dei canoni di bellezza, divagazioni intimistiche, sguardi minuti sul corpo raccontano un uso del video sperimentale utile a ribaltare tutti quei canoni che in passato avevano storicamente escluso il contributo delle donne alle arti visive.

Il saggio di Sandra Lischi su Irit Batsry, israeliana d’origine, ma viaggiatrice e migrante, descrive il lavoro dell’artista basato su costanti dialoghi e ‘passaggi’, che si concretizzano in una sperimentazione monocanale nella quale l’immagine elettronica si interseca con la fotografia e con il cinema, e nella realizzazione di videoinstallazioni dove si integrano materiali poveri ed uso scultoreo della pellicola cinematografica. Torna, anche con Batsry, il concetto di tessitura e di una lavorazione sull’immagine elettronica condotta con la stessa meticolosità che si adotterebbe in un processo fotografico analogico. Ma nelle sue opere emerge anche il tema importante della visione, della fallibilità dell’occhio umano e di quello della macchina, in cui l’immagine si mostra come un’identità incerta, mutabile, da curare e costruire. E ancora sull’incertezza della visione, sull’ambiguità, sull’incapacità delle immagini di conservare una propria identità nel passaggio da un medium all’altro si concentra il saggio di Jennifer Malvezzi e Bianca Trevisan attraverso l’analisi del complesso lavoro interdisciplinare di Valentina Berardinone, dove si manifesta il concetto di una latenza delle immagini, difficilmente strutturabili sia nello studio dei libri d’artista, nei disegni, nei calchi, sia nella realizzazione delle pellicole tra anni Settanta e Ottanta.

Negli ultimi due testi lo sguardo si apre sul mondo e sulla scienza: con il saggio di Federica Stevanin scopriamo i film sperimentali della statunitense Nancy Holt, ancora cronologicamente collocati negli anni Settanta, in cui è centrale l’osservazione della natura e del paesaggio. Focalizzando l’attenzione sui meccanismi di visione e percezione, i film di Holt offrono spunti di riflessione sull’atto del vedere, sia umano che meccanico, tra possibilità e limitazioni. Infine, Micaela Veronesi presenta il lavoro di Mary Field, pioniera inglese che tra la fine degli anni Venti e i Quaranta si è dedicata con particolare attenzione alla realizzazione di documentari scientifici e film educativi, lavori straordinari per sapienza tecnologica, uso di effetti (dal timelapse alla stop motion, dall’uso dei diagrammi animati al ralenti) e finalità etiche di rappresentazione e racconto. Una cineasta che, come altre presentate in questa sezione e non solo, è rimasta fuori dalla storiografia, dal dibattito critico e privata del dovuto riconoscimento.