Pensando alla storia del cinema nel suo complesso, in una sorta di lungo sguardo che abbraccia i primissimi anni e gli esisti contemporanei, è arduo, se non impossibile, tracciare nette linee di separazione fra le pratiche sperimentali e il resto della produzione, poiché tradizionalmente coloro che intendono forzare le convenzioni e manipolare i linguaggi si misurano, spesso con piglio polemico, con le consuetudini del mainstream; e queste ultime, viceversa, non mancano di impadronirsi, ancorché filtrate e in qualche misura depotenziate, delle innovazioni più promettenti delle ricerche d’avanguardia. Certo emergono punti particolarmente fecondi, alcune aree dove l’afflato sperimentale si agglutina, ma sono le zone di mescolamento e di reciproco contagio ad apparire più vitali e ricche di spunti.
Del resto, proprio negli anni in cui il cinema cerca se stesso e percorre molte vie per affermarsi nel mondo, l’orizzonte del possibile si amplia a dismisura, e di fianco alla linea diritta che porterà alla nascita dell’istituzione si attorcigliano segni diversi, a volte sinuosi come arabeschi, a volte appuntiti come saette. Così le spinte verso la vettorializzazione narrativa della grammatica cinematografica maturano mentre vanno risuonando i proclami futuristi, con i loro roboanti e finanche, in certo modo, teneri propositi di rifondare l’universo intero, di fabbricare da capo le cose del creato, dando «scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile», sfidando persino la natura per costruire «l’animale metallico», l’essere nuovo, «automaticamente parlante, gridante, danzante» (Balla e Depero, 1915).
In questo scenario, mosso e innervato di forze divergenti, lo schermo si offre come pagina bianca, tela accogliente e aperta a tutti gli esiti immaginabili. È uno spazio punteggiato di inediti cominciamenti, dove tutto accade per la prima volta, ed anche i film votati più schiettamente alla narrazione piana divengono teatro di sperimentazione, come riferisce il contributo di Elena Mosconi, che indaga la nutrita e misteriosa schiera delle bambine attrici nel primo cinema italiano. Figure anonime o semi-sconosciute, sono numerose le fanciulline che, variamente e fluidamente, abitano i fotogrammi muti, incarnando nell’acerba midolla dei loro corpi i segni mutanti di un linguaggio, quello cinematografico, in via di trasformazione e messa a punto. Talvolta le bimbe che recitano assumono forme fantasmatiche, intimamente legate al sogno e agli artifici della sovrimpressione, come la piccola protagonista di L’orfanella di Messina (Giovanni Vitrotti, 1909); in altri casi si prestano angelicamente alla metafora e al simbolismo religioso così diffuso nelle pellicole degli anni Dieci. Oppure, nella gamma opposta, queste intrepide fanciullette interpretano e dunque in un certo senso esperiscono, sullo schermo, comportamenti ribelli e trasgressivi, come accade a Maria Bay, dispettosa e mobilissima nell’impersonare Pierino in Le bolle di sapone (Giovanni Vitrotti, 1911).
L’inclinazione sperimentale del cinema di questi anni si ispessisce se guardiamo alle protagoniste femminili, non soltanto alle dive, ma anche alle produttrici, alle registe, alle montatrici e al folto gruppo delle fautrici attive nel cantiere del film che, approfittando da un lato dell’anarchismo di un’industria nascente e ancora non pienamente strutturata; e dall’altro del vuoto lasciato dagli uomini chiamati sul fronte della Grande guerra, si sono ritagliate uno spazio d’azione piuttosto ampio (cfr. Dall’Asta 2008). L’aria è increspata da potenti mutamenti e il mondo sta per essere sconvolto, avverte la futurista Rosa Rosà pensando soprattutto alle donne del posdomani, giacché stanno per accadere «profonde metamorfosi psicologiche, sessuali, erotiche» (Rosà 1917, p.11). In questo corrusco panorama si staglia la figura poliedrica e fascinosissima di Diana Karenne, attrice, produttrice e regista di cui scrive Stella Dagna. Il suo profilo continua a sfuggirci, in ragione della irreperibilità dei film che ha diretto e della vivace contraddittorietà delle fonti secondarie, divise nel consegnarci una immagine di lei alternativamente geniale e originalissima oppure marchiata, al contrario, dallo stigma di una mediocrità insuperabile. In ogni caso, come dimostra Dagna, Karenne si è confrontata con le infinite possibilità del «raggio luminoso» – per adoperare una espressione della stessa cineasta – e ha potuto disporre di una straordinaria libertà, sperimentando, specialmente nella pratica della sceneggiatura, la creazione di personaggi complessi, dotati di una ricchissima e imprevedibile vita interiore.
Ancora sul confine scivoloso del mainstream, e forse sospinta da una analoga ricerca di libertà, molti decenni più tardi appare Barbara Loden, statuaria pin up dalla chioma rilucente e poi diva seducentissima di chiara matrice hollywoodiana, che si reinventa regista, nel 1970, di un film sperimentale e sotterraneamente abitato dal femminismo come Wanda. Di lei e di questa pellicola fortemente segnata dalle suggestioni opache, ma rivoluzionarie, della modernità si occupa Diletta Pavesi, illuminando un caso di studio davvero notevole. Difatti, sebbene sottovalutato dalla coeva critica femminista, Wanda mette in scena una sorta di contestazione vivente del ‘Glamour System’ e dello stereotipo della beltà di celluloide attraverso il corpo della attrice-regista, che si spoglia di tutti i luccicanti orpelli del cinema del patriarcato, e va incontro, forse pateticamente, ad una sconfitta che ci imbarazza e tuttavia continua ad interrogarci.
Infine, per concludere questo percorso mirato ai bordi e alla osmosi fra pratiche sperimentali e spazi normati dall’istituzione, occorre soffermarsi, con il contributo di Gina Annuziata, sul bizzarro destino di Four Women (1975) di Julie Dash, che sembra in qualche misura reincarnarsi nel successivo Daughters of the Dust (1991), portando sugli schermi televisivi americani la riflessione di una autrice nera capace di affrancarsi dai cliché del realismo e del ‘ben fatto’ imposti alle e ai black filmmaker. Così, nello specchio ristretto ma promettente degli apparecchi domestici, il cerchio di una genealogia che è incominciata negli anni tumultuosi e oscuri del muto e ha lambito i corpi fluidi delle attrici-registe nelle epoche successive, non si chiude su se stessa, ma si allarga in una spirale sempre più ampia ed elastica, dove si sfiorano, sorridendosi da lontano, le mani audaci delle sperimentatrici di ieri e di oggi, guardando a quelle di domani.